ScopriAMO l’Africa nasce grazie alla fiducia e al supporto che Anymore Onlus ha dato ai suoi volontari. Ciò che accomuna i membri del team è un’esperienza di volontariato in Africa. In particolare, molti di noi hanno svolto il Servizio Civile in Rwanda all’interno dei progetti sostenuti da Anymore Onlus.
Gli ambiti di intervento in Rwanda sono principalmente due: Sport ed Educazione. Nell’ambito dello sport e dell’inclusione è attivo il progetto “Fair Play” portato avanti in partenariato con l’Oratorio salesiano del distretto di Gatenga (Kigali), la squadra di Rugby locale dei “1000 Hills” e due scuole del villaggio di Ndera: il Groupe Scolaire Ndera Catholique e il Petit Seminare.
Nell’ambito dell’educazione inclusiva, Anymore Onlus, sostiene il progetto della casa famiglia Holy Family e ha avviato il progetto “Gatagara”, all’interno dell’Istituto HVP Humura di Ndera, centro diurno che ospita bambini/e e giovani affetti da disabilità fisiche e/o mentali.
Inoltre, i volontari prendono parte ad altre progettualità all’interno di alcuni istituti locali dove vengono proposte attività quali: lezioni di inglese, laboratori artistici, laboratori di cucina, laboratori sportivi, etc.
Per cercare di farvi conoscere meglio Anymore Onlus abbiamo intervistato Antonio, presidente dell’associazione.
Antonio, come nasce Anymore Onlus?
Anymore Onlus nasce come associazione di fatto nel 2003, dopo un’esperienza di volontariato internazionale a Sarajevo, in Bosnia, con l’AGESCI. L’esperienza è stata molto forte. Erano, infatti, passati solo dieci anni dal Conflitto Balcanico e ancora si percepivano e vedevano le cicatrici lasciate dalla guerra. Da quel momento è iniziato un lungo percorso che ci ha portato, nel 2009, a strutturarci e costituirci Onlus, condizione fondamentale per permetterci di operare, soprattutto a livello internazionale.
Come siete arrivati in Africa?
Personalmente ho sempre viaggiato tantissimo e questo mi ha consentito di allargare orizzonti e prospettive. Questa dimensione internazionale ha caratterizzato, sin dall’inizio, il mio contributo ad Anymore con una declinazione specifica nella promozione dei diritti umani. L’incontro con l’Africa risale anch’esso al quando insieme ad altri due volontari di Messina, siamo stati invitati in Eritrea. Abbiamo conosciuto realtà complesse miste di impegno e sofferenza ed abbiamo provato a dare una mano: da allora il continente africano è diventato parte della mia personale esperienza di vita e quindi dell’associazione.
Come hai conosciuto invece il Rwanda?
Nel 2009 sono stato in Rwanda con Monsignor Nino Caminiti, allora direttore della Caritas di Messina, in occasione della verifica dei loro progetti, che, dopo un percorso durato dieci anni, stavano volgendo al termine. Quell’esperienza ha stimolato idee e progetti e, rientrato in Italia, ho proposto all’associazione di sostenere il Progetto della casa-famiglia “Holy Family”, già avviato dalla Caritas subito dopo il genocidio. Durante quel viaggio in Rwanda tra i tanti incontri significativi c’è quello con Padre Jean Bosco che si è poi rivelato una figura strategica per lo sviluppo della nostra presenza in Rwanda. È stato grazie al suo aiuto che abbiamo avviato i campi di volontariato internazionale e, successivamente, il Servizio Civile.
Come siete arrivati al Servizio Civile?
Abbiamo sempre avuto l’idea di attivare progetti di Servizio Civile per rafforzare la presenza sul territorio e poter far fare un salto di qualità dando maggiore continuità agli interventi. Ci siamo arrivati con il tempo: una cosa è infatti organizzare dei campi estivi o delle presenze saltuarie ben altro impegno è organizzare e gestire l’attività di un gruppo di volontari per un anno intero. Nel 2019, in collaborazione con il CESC Project e grazie alla sua grande esperienza, siamo riusciti a far partire i primi due progetti di Servizio Civile in Rwanda: “Una bambina chiamata Africa” e “Guardare lontano senza paura”. A gennaio di quest’anno era partita la seconda annualità con il progetto “Tugende, nel cuore dell’Africa” che però purtroppo è stato interrotto a causa dell’emergenza COVID-19.
Come è cambiato il rapporto con il territorio e con i beneficiari grazie alla presenza costante dei volontari?
È cambiato in meglio, l’associazione che prima era visibile in loco solo per pochi mesi l’anno con le esperienze individuali o di gruppo di volontariato internazionale, è diventata presenza attiva e costante durante tutto l’anno. Avere una equipe formata, competente e operativa per 12 mesi è stato un passaggio decisivo per far evolvere i progetti. Questo non solo ha permesso ai progetti già avviati di fare un salto di qualità, ma ci ha permesso anche di conoscere nuove realtà e avviare nuove collaborazioni. Dopo la sperimentazione del primo anno, il secondo,sulla base dell’esperienza realizzata, che ci ha permesso di conoscere meglio i bisogni dei beneficiari e quindi di correggere e migliorare la progettazione degli interventi.
Qual è stato il tuo primo impatto con l’Africa?
Il primo impatto forte è stato in Eritrea, terra bellissima. La capitale, Asmara, ricorda molto l’Italia di un tempo ma martoriata e molto povera. L’esperienza in Eritrea ha aperto un mondo da esplorare sia dal punto di vista più introspettivo e personale ma anche da quello associativo. Se ripenso all’Eritrea, rappresenta metaforicamente la porta d’ingresso al mio “Mal d’Africa”.
Tu sei stato in diversi Paesi africani, qual è, dal tuo punto di vista, la peculiarità del Rwanda?
La prima cosa che mi viene da pensare è la straordinarietà del suo patrimonio naturalistico che non ho ritrovato da nessun’altra parte. Poi direi la storia, soprattutto perché si accomuna all’esperienza fatta dall’associazione in Bosnia. Nello stesso periodo storico, infatti – sebbene con diverse modalità – questi due Paesi sono stati vittime di un genocidio. Inoltre, del Rwanda mi ha colpito la serietà di interlocuzione che si riesce ad instaurare con i partner che, nel nostro caso, si sono fatti garanti per noi in diverse occasioni e ci hanno aiutato a portare avanti le nostre progettualità. Non è banale, non solo in Africa, trovare partner affidabili ma i partner locali sono un elemento fondamentale per la buona riuscita di un progetto.
Qual è il ricordo più bello che hai del Rwanda?
Sicuramente uno dei ricordi più belli è del 2014 quando, come associazione, in occasione del ventennale del genocidio abbiamo pensato di costruire un’esperienza di scoperta e conoscenza del Paese. Quell’estate in Rwanda, Anymore ha portando un gruppo di ben 17 persone. Si è trattato di un’esperienza straordinaria, in termini di dinamiche e relazioni tra il gruppo e con le comunità locali. Mi porto questo ricordo e, soprattutto il ricordo di quando tutti insieme siamo stati alla scuola rurale di Nganzo, un piccolo villaggio a quattro ore d’auto da Kigali, sperduto tra le colline. Da quell’esperienza nasce il progetto “Diamoci una mano” tramite il quale, grazie al lavoro dei volontari e al sostegno di tanti benefattori dall’Italia, abbiamo ricostruito una scuola mettendoci non soltanto i fondi ma anche il lavoro manuale vero e proprio.
Qual è stata invece, in generale, l’esperienza più forte che hai vissuto all’estero?
L’esperienza più introspettiva e più personale l’ho vissuta in India presso le strutture di Madre Teresa di Calcutta, che ho deciso di vivere come esperienza di coppia. Lì ho visto il miracolo della forza di volontà, vivere l’India è un pungo nello stomaco perché sembra che tutta la povertà del mondo sia concentrata lì. Nonostante conoscessi già l’Africa, in India mi sono ritrovato a non capire il senso di alcune cose. Ogni sera, quando tornavo dal servizio, rimanevo sempre con un punto interrogativo davanti agli occhi. “Perché?” Questo interrogativo me lo porto dietro sia dal Rwanda, che dalla Bosnia, ma in India è stato ancor più disarmante. Mi sento di consigliare un’esperienza in India, soprattutto nelle strutture di Madre Teresa: lì mi sono reso conto che i “miracoli” esistono. E non penso ad interventi soprannaturali ma al miracolo che le persone comuni possono portare avanti, partendo da un esempio.
Antonio io mi ricordo che – durante la mia esperienza di Servizio Civile – in occasione di un momento in cui noi volontari ci siamo sentiti impotenti di fronte ad alcune realtà difficili in cui operavamo, tu ci hai raccontato proprio della tua esperienza in India e questa cosa ci era molto servita per riprendere fiducia in noi stessi e nel nostro servizio.
Si, infatti, svolgevamo servizi diversi presso le strutture di Madre Teresa. Le donne tutti i giorni lavavano i panni, le lenzuola e le coperte a mano in grandi vasconi, iniziavano la mattina alle 7 e finivano il pomeriggio alle 14. Quando ci ritrovavamo la sera la riflessione era sempre la stessa: “Ci sono persone che stanno morendo e io, che faccio … passo la giornata a lavare i panni.”. Questa cosa, lì per lì, le sembrava banale e inutile. A me, invece, capitava di fare il servizio barba anche a chi di barba non ne aveva. Questo era un modo per dare attenzione, rispetto, riconoscere l’umanità di quei vecchietti che l’indomani avrebbero potuto non esserci più. Il miracolo di questi posti è proprio che, fino all’ultimo respiro, tutti sono trattati come le migliori persone che puoi avere accanto. Perciò quella barba finta o quel lavaggio continuo di vestiti e coperte era un modo per riconoscere quotidianamente la loro dignità di persone, di esseri umani. Quando la sera tornavi a casa ti sembrava di non aver fatto nulla ma, in realtà, quella cosa è molto importante. Con il tempo capisci che quell’azione in quel momento era il massimo che potevi fare per quella persona. Spesso di fronte ad alcune situazioni ci sentiamo impotenti (come, ad esempio, ora con il COVID-19), e qualsiasi azione può sembrare inutile. Ma bisogna rendersi conto che non c’è nulla di inutile, è solo una percezione nostra. L’azione che compiamo ci può rendere più o meno felici ma sarà il tempo a dire se quell’azione avrà dato i suoi frutti. A volte la nostra inutilità ha come risultato la felicità degli altri, perciò, ben venga l’inutilità personale che non dà niente a noi ma può dare tanto agli altri.
Anymore Onlus però non è solo Africa, in che modo siete attivi sul territorio messinese?
Lavoriamo molto con la Giustizia Minorile attraverso percorsi di cittadinanza attiva. Anymore Onlus fa parte del presidio messinese di Libera e, in particolare, gestiamo per il presidio il progetto Amunì sul territorio messinese. Invece, in collaborazione con l’USSM (Ufficio Servizio Sociale Minorenni) di Messina portiamo avanti il progetto CPA (centro di prima accoglienza). Abbiamo attive anche tante altre progettualità sospese a causa della pandemia. Inoltre, ci occupiamo di promozione dei Diritti Umani nelle scuole (che al momento continuano in modalità on-line), e – in seguito all’emergenza COVID-19 – abbiamo attivato percorsi ricreativi con i centri estivi e di supporto scolastico.
A cura di Veronica Giordani
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