Giacomo, Guglielmo, cosa vi ha spinto a fare il Servizio Civile e perché in Rwanda?
Giacomo: Ho scelto di fare il servizio civile perché era un po’ di tempo che volevo fare un’esperienza all’estero in un contesto di aiuto/cooperazione, e lo SCU è una realtà molto ben strutturata in cui iniziare a muoversi per mettere in pratica le competenze acquisite grazie agli studi. Il Rwanda in realtà, è brutto da dire, ma l’ho scelto per mancanza di alternative. Io sono laureato in Ingegneria Civile e Ambientale, e non sono molti i progetti che offrono un’esperienza in questo ambito. Quindi diciamo che non ho scelto il Paese ma il progetto che era più in linea con le mie competenze.
Guglielmo: Anche io ho scelto essenzialmente per il progetto. Che fosse il Rwanda o il Guatemala a me non cambiava molto. Cercavo un progetto inerente a quello che avevo studiato (ho una laurea triennale in Scienze Naturali e una laurea magistrale in Scienze Ambientali) e questo progetto l’ho trovato in Rwanda. Il servizio civile è un’ottima opportunità che ti permette di applicare quello che hai studiato, se sai scegliere bene il progetto. È un’occasione per cominciare a lavorare da zero, può essere un trampolino di lancio per imparare a fare qualcosa di pratico dopo gli studi (io per esempio non sapevo fare altro che stare sui libri).
Quali difficoltà avete trovato in Rwanda?
Giacomo: Nello stile di vita nulla di troppo particolare. A parte non poter mangiare in giro, che ancora mi turba come cosa (in Rwanda non si consumano cibi/bevande in strada ma solo nei bar/ristoranti o a casa, n.d.r.). Un’altra cosa a cui mi sono dovuto abituare è il rumore proveniente dalla chiesa la domenica (le messe ruandesi sono molto lunghe e frequentate da molta gente, durante la funzione si fanno molti canti il cui ritmo viene scandito battendo le mani, n.d.r.). Sul lavoro all’inizio ci sono state alcune difficoltà perché molti collaboratori locali non sanno usare il computer, quindi la condivisione di informazioni doveva avvenire per telefono o per carta.
Guglielmo: Sicuramente il fatto che quando cammini per strada tutti ti guardano perché sei bianco, questo me lo ricordo bene. E a questa cosa diciamo che ci fai l’abitudine, ma anche se ci fai l’abitudine comunque non è piacevole, sei sempre al centro dell’attenzione. Ovunque tu vada, tutti sanno che ci sei, non puoi passare inosservato. Per il resto noi siamo stati molto facilitati essendo stati inseriti in un contesto strutturato come quello del Servizio Civile, la presenza dell’OLP (operatore locale di servizio, n.d.r.) in loco poi ci ha facilitato molto su tutte le questioni tecniche e burocratiche. Per di più il nostro OLP è un italiano che ha la famiglia là, quindi siamo stati ancora più avvantaggiati. Per quanto riguarda il lavoro, in realtà, col fatto che io non avevo mai effettivamente lavorato, è stata la prima applicazione pratica di quello che avevo studiato. Visto che era comunque la mia prima esperienza quello che ho trovato sicuramente più difficile è che siamo partiti un po’ da zero e dovevamo comunque prendere in mano un lavoro iniziato gli anni precedenti da altre persone, quindi ci sono state cosa da rivedere, correggere, integrare, etc.
In cosa consisteva il vostro lavoro?
Guglielmo: Mi occupavo di raccogliere campioni di acqua da diverse fonti, come ad esempio sorgenti o fontane, per portarle poi nel nostro piccolo laboratorio in città o nel laboratorio sul campo per fare le analisi, riportare i risultati e scrivere dei report.
Giacomo: Tra le attività principali, c’è stata quella di tracciamento del GPS, quindi il disegno di strutture tramite il software CAD, e attività ingegneristiche varie riguardanti tutta la fase di studio precedente alla realizzazione.
Il Rwanda è un Paese pericoloso?
Guglielmo: No, perché semplicemente in Rwanda c’è la sicurezza di pena. Perciò se tu sgarri paghi e questo ha un certo effetto deterrente. Poi chiaramente ci sono i crimini come in tutti gli altri Paesi, però il Rwanda è stato definito come la Svizzera d’Africa proprio anche perché è riuscita a debellare la microcriminalità. Per cui è un Paese sicuro, soprattutto per gli espatriati. Gli espatriati sono molto protetti. Se avviene un crimine contro un espatriato si ha come la percezione che sia più perseguito, cioè che la polizia dia molta importanza alla cosa perché il governo vuole dare al mondo l’immagine di un Paese molto sicuro, così da attrarre investimenti e persone.
Giacomo: Sono d’accordo e aggiungo che anche la presenza di forze armate e polizia a tutti gli angoli aiuta a stare più tranquilli e sì, confermo la cosa che le persone stanno più attente a non commettere reati perché sanno che altrimenti riceveranno una pena certa. Per questo il tasso di microcriminalità è molto basso. Può comunque avvenire di essere taccheggiati, però è un’eventualità difficile. Diciamo che anche se giravo con lo zaino sulla schiena non mi sentivo a rischio. Mentre magari in stazione a Bologna mi verrebbe da girarlo e tenerlo stretto davanti, o senza niente dentro.
Quale consiglio dareste a una persona che sta per partire per il Rwanda?
Giacomo: Beh per prima cosa di mangiare le brochette (tipico piatto rwandese simile ai nostri arrosticini, solitamente fatto con carne di capra ma anche con manzo/pollo/pesce, n.d.r.), soprattutto quelle zingaro (brochette a base di interiora, n.d.r.), e di prepararsi a mangiare tante patate. Cibo a parte, di avere pazienza, perché se all’inizio sembra abbastanza diverso dal contesto abituale, in poco tempo ci si ambienta e abitua a questo cambiamento anche facilitato dall’interazione con la gente locale, e soprattutto un consiglio che do è di imparare almeno le basi della lingua locale. Quello fa veramente la differenza secondo me. Almeno le basi per salutare, per andare al mercato, o prendere un moto-taxi.
Guglielmo: La questione della pazienza, la confermo e la sottolineo più volte. Ci vuole una gran pazienza per stare dietro anche solo ai tempi e al traffico. Ma sottolineo anche il fatto della lingua locale. Imparare anche due espressioni della lingua locale a loro fa molto piacere e comunque è una cosa che costa poco sforzo ma in realtà cambia molto la situazione.
Qual è stato il primo impatto con il Rwanda?
Giacomo: Ma partendo dal fatto che mi han perso le valigie all’arrivo, per questo direi abbastanza cattivo. A parte quello, mi è sembrato un paese con molti concetti da città europea, quindi al primo impatto è tutto molto positivo. Anche perché siamo stati aiutati e facilitati nell’integrazione. Oltre a questo, la positività è dovuta anche alla bellezza del posto, ma anche all’interesse per quello che facevamo e per la gente che conoscevamo.
Guglielmo: Molto bello in realtà, io non avevo idea di cosa aspettarmi, per cui quando sono arrivato lì ho visto che comunque era tutto abbastanza organizzato. Quando siamo arrivati in città mi ricordo che il mio primo pensiero è stato “Questa città è pulita”, il che mi ha stupito molto perché non me lo sarei aspettato visto l’immaginario delle città africane. Poi quando son stato a Dar es Salaam e a Kampala ho capito che la pulizia è una peculiarità di Kigali.
Immaginatevi il vostro mondo ideale, cosa portereste dal Rwanda e cosa dall’Italia?
Guglielmo: Dal Rwanda importerei il clima, il clima rwandese è una cosa bellissima. Io ora vivo in un paese dove piove e fa freddo (Galles, n.d.r.). Là invece se piove almeno non fa freddo. E poi comunque oltre alla pioggia c’è anche il caldo, per cui il clima è bellissimo perché è un clima che ti permette proprio di stare bene.
Giacomo: Mah, forse l’unica cosa che importerei è la dignità di molte persone che nonostante abbiano poco, non si vergognano di quello che hanno, ma valutano molto invece il loro poco. È una cosa che qui non c’è. La dignità di aver poco. Dall’Italia direi il cibo, o per lo meno la varietà di cibo che abbiamo in Italia.
Cosa cambiereste del Rwanda e dell’Italia invece?
Giacomo: I politici in Italia e l’eccesso di fiducia nella chiesa dei rwandesi. Questo concetto che pregare risolva le cose è molto forte. Poi cambierei un po’ la loro poca inclinazione all’analisi critica, il prendere le cose come vengono, senza mai farsi troppe domande.
Guglielmo: Dall’Italia i politici incompetenti, e gli incompetenti in generale. Dal Rwanda, si c’è la chiesa. La chiesa in Rwanda è una situazione che un po’ mi ricorda tipo l’era medievale dove c’era la chiesa che comandava e possedeva un sacco di terre, in Rwanda è tutt’ora così. Ecco una cosa che invece toglierei dal Rwanda è questa cosa che le persone credono, secondo me, che i bianchi siano più bravi a far le cose e che quindi ti trattano un po’ meglio almeno di primo acchito. Questa cosa di vedere i bianchi come persone che portano i soldi, quindi migliori. Ma non è vero.
Qual è stata per voi la cosa più strana del Rwanda?
Giacomo: L’apparenza pubblica. Nel senso che quando sei in giro non devi fare certe cose, che le fai solo a casa. Non so come spiegartelo. Cioè il dover apparire. Quella per me è la cosa più assurda.
Guglielmo: Si, anche io sono pienamente d’accordo con questa cosa. Le scarpe sempre pulite è la cosa per me più assurda del Rwanda. In un Paese dove la maggior parte delle strade non hanno l’asfalto e sono rosse di terra e fango, eppure la gente ha sempre le scarpe pulite e ti chiedi come sia possibile.
Avevate qualche stereotipo, sul Rwanda piuttosto che sull’Africa in generale prima di partire?
Guglielmo: Allora, lo stereotipo più grande è dovuto sicuramente al fatto che se tu scrivi Rwanda su Google si parla del genocidio, del genocidio e del genocidio, punto. Non c’è altra informazione che viene fuori su quel Paese. Da internet. Per cui, chiaramente, tu arrivi lì credendo che sia un Paese distrutto, cioè hai un’idea di un Paese che è lacerato. Cosa che di fatto lo è, socialmente, ma non è evidente. Però quando arrivi lì, lo vedi che è un Paese completamente diverso da come ti immagini. Un Paese che funziona, che ha delle regole, insomma ha una scala di potere forte e salda. Quello che pensavo prima che fosse un Paese instabile, vivendo lì ho capito che è un Paese dei più stabili che ci sia mai stato e sicuramente più stabile di tanti Paesi europei.
Se pensate al Rwanda quale immagine vi viene in mente, quale rumore e quale odore sentite?
Guglielmo: Come prima immagine vedo un bananeto. Rumore: il rumore delle moto al semaforo quando partono tutte insieme. L’odore, ho un odore in mente che, se devo essere sincero, è un odore strano. È l’odore un po’ dei fagioli quando cuociono sulla carbonella, fanno questo odore particolare che è poco intenso, però molto corposo.
Giacomo: Il rumore è quello della pioggia, l’immagine è quella del Mande (collaboratore domestico, n.d.r.) che lava, perché per me tutti i giorni mi alzavo e vedevo lui che lavava. Mentre come odore è difficile perché non ho un odore preponderante. L’odore di quando bruciano la plastica, forse; però era un odore occasionale, che avveniva tutti i martedì sera, mi sembra, o anche quello della carne sulla brace, l’odore del fumo proprio.
Un ricordo particolare che vi portate dell’anno in Rwanda?
Giacomo: Sicuramente la cerimonia del passaggio di consegna dell’acquedotto. Praticamente un anno fa: vedere tutta quella gente lì, ammassata, felice, per una cosa che a noi sembra scontata ma che invece fa felice tanta gente locale. È stata forse l’emozione più forte che ho vissuto laggiù, sicuramente più di tante altre, quel giorno mi sono sentito proprio felice di essere lì a fare quello.
Guglielmo: La mia risposta è legata molto alle persone che ho conosciuto e con cui sono stato quell’anno. Quella è la cosa che mi ricorderò sempre, di voi e di tutti gli altri, ecco. Soprattutto di Jack, perché insomma abbiamo vissuto un anno insieme. Più questo che un evento particolare. Di eventi particolari, invece, ce ne sono tanti quindi non mi sento di dare più importanza ad uno rispetto ad altri.
Dove vi vedete nel vostro futuro? Vi piacerebbe vivere in Italia, tornare in Africa, andare in un’altra parte nel mondo?
Guglielmo: Sinceramente dove mi offrono lavoro, io ci vado. Ora sto facendo un dottorato in Galles e qui è dove vivrò, per altri due anni e mezzo.
Giacomo: Io quando è scoppiata la pandemia mi trovavo in Malawi per lavoro ed ero convinto di lavorare ancora in giro per il mondo per anni. Non so quanti, una decina. Al momento sono dovuto rientrare in Italia ma mi vedo ancora in giro, ancora per un po’. Io ho fatto un passaggio abbastanza netto dalla cooperazione alla consulenza all’estero, il che cambia molto. Hai molta più libertà tecnica e possibilità tecnica, ma molto meno contatto sociale, rapporto umano anche con i beneficiari stessi. Tu fai un progetto, o una gara d’appalto e poi quel che succede, succede, non gli interessa più. Non ho ancora avuto modo di capire quale settore preferisco però sì, comunque, mi vedo a lavorare da ingegnere all’estero. Specialmente in contesti e Paesi emergenti.
A cura di Veronica Giordani e Valentina De Venuto