Testimonianze dal Ghana: Elisa Parata

Ero una calabash vuota. Tu mi hai riempita con l’entusiasmo, l’altruismo, la gratitudine, l’amore, la pace. Mi hai regalato i sentimenti più nobili che avevo perso.
Esiste un altro modo. Di vivere. Di sperare. Tu me l’hai insegnato. Tormentami fino a quando non mi avrai tra le mani.
Scuotimi dal torpore che incattivisce. “So close, so far” Mal d’Africa. Ora che ti conosco, ti amo.

Sono Elisa, ho 27 anni e sono pugliese. Dopo essermi diplomata al Liceo Scientifico Sperimentale, mi sono trasferita a Roma e ho conseguito, nel 2016, la Laurea in Tecniche di Neurofisiopatologia. Scrittrice nel tempo libero, avventuriera, amante dei libri e della natura. Attualmente vivo in Toscana con la mia cagnolina ghanese Mia, che ha svolto metà del Servizio Civile con me e che sono riuscita, con fatica, a riportarmi in Italia.

Credo che l’amore per l’Africa sia nato con me: quando avevo 5 anni la mia canzone preferita dello Zecchino d’Oro era “Amico Nemico” che faceva “Ma che ti importa del colore, del passaporto che lui ha? E se non sai che Dio prega, dimmi un po’ che differenza farà?” A soli 13 anni ho scritto il mio primo romanzo contro il razzismo “Caleidoscopio d’amore” e nel luglio 2017 sono riuscita a coronare il mio sogno e sono atterrata in Ghana per una vacanza di 3 settimane. La mia scoperta e la mia ricerca, sono state favorite fin da subito, poiché ho avuto la possibilità di vivere con persone ghanesi, respirando e assaporando a pieno la cultura e le tradizioni, nonché il buon cibo. Durante il mio primo viaggio sono stata ospitata ad Accra, da due pastori donne della chiesa Christ Embassy, una chiesa pentecostale molto diffusa in Ghana e Nigeria. Sono cattolica, ma non ho avuto problemi ad avvicinarmi in punta di piedi a questa nuova fede, restando, a primo impatto, terrorizzata dalle loro urla e dal loro pregare “in tongue”, la lingua dello Spirito. Lingua incomprensibile, ma che generava una preghiera di un’intensità senza fine. Sono poi ritornata in Ghana, per la seconda volta, a fine settembre del 2017, questa volta per 2 mesi. Ero stata invitata a collaborare alla realizzazione di un e-book per ragazzi da un imprenditore ghanese. Mi sarei occupata di realizzare presentazioni di biologia e chimica, animate e di facile comprensione, tramite Power Point. Ho vissuto a casa sua, ad Accra, con la moglie e i 3 bambini e ho lavorato presso la sua azienda ad Achimota New Station al fianco di altri 5 colleghi ghanesi. Dopo il lavoro poi, mi recavo presso l’Alliance Francais per seguire il mio corso di Inglese. Ho sempre sentito con il Ghana una stretta connessione, per la prima volta mi sono sentita a casa, nel mio posto, e ho sempre cercato, con umiltà e curiosità di conoscerlo dall’interno. Andavo in giro per i vicoli, per i mercati, acquistavo Palm Wine dagli anziani, compravo la carne arrostita per strada o mangiavo il Banku con il viscido Okro soup (il mio preferito) con le mani. Mi lasciavo inghiottire dal traffico frenetico, preferendo i tro tro ai taxi, contrattando con i “Meite” che, ogni tanto, cercavano di imbrogliarmi solo perché sono un’“Obruni”. Tornata in Italia, nel 2018, ho lavorato presso un supermercato biologico a Roma, ma continuavo ad avere fame. Nutrivo questa voragine con i ricordi, ascoltando musica ghanese, rubando conversazioni in metropolitana che sapevano di twi ed inglese e che riuscivano, in parte, a placare questa “Homesick”. Sono venuta a conoscenza del Servizio Civile quasi per caso, guardando le Iene. Non ne sapevo molto e così mi sono documentata in internet. Si poteva fare anche all’estero!!! E… c’erano anche due progetti in Ghana con il Cesc Project!!! Nonostante volessi scoprire altri posti e avessi valutato per un secondo la possibilità di svolgerlo in Kenya, in Tanzania o magari in Senegal, non potevo non ritornare dove ero stata bene. Non potevo non ritornare dove avevo lasciato il mio cuore, portando indietro solo il corpo. Perché come diceva Ghandi, “l’uomo è dove è il suo cuore, non dove è il suo corpo”. Con la mente ero già in Ghana, ma dovevo prima superare le selezioni e, se fossero andate bene, licenziarmi e lasciare la casa in cui vivevo. Sono una persona determinata e sono riuscita a far accettare questa scelta un po’ sconclusionata anche alla mia famiglia e così il 1° febbraio 2019, dopo un periodo intenso di formazione a Roma, atterravo in Ghana. Questa volta non avrei vissuto nella ricca capitale, ma al fianco dei padri dell’Opera Don Guanella, presso la Good Samaritan Home ad Adidome, una piccola comunità a circa 3 ore di tro tro da Accra. Ad aspettarmi, oltre a Father Francis, ghanese, e a Father Kinsley e Laurence, nigeriani, c’erano 23 bambini/ragazzi con disabilità, soprattutto down, oppure affetti da poliomielite o con altre patologie mentali medio/gravi. La disabilità in Ghana non è facile, e soprattutto non è ancora accettata a causa di credenze religiose e spirituali come il Juju, diffuse soprattutto nei villaggi al confine con il Togo, molto più poveri e più inclini a seguire la tradizione. La disabilità fisica è un conto, ma la paura e la superstizione dilagano soprattutto quando si parla di disabilità mentale. Quando i nostri ragazzi down tornavano a casa per le vacanze, si divertivano a fare qualche dispettuccio ai vicini, rubando i vestiti, (come facevano anche con me), ma questi, per paura, non li indossavano più. Un ragazzo del centro, Kokou, era affetto da continui spasmi muscolari che non gli permettevano di parlare o muoversi normalmente e quando tornava a casa veniva relegato in un magazzino e sfamato dai vicini per pietà, poiché la famiglia non voleva prendersene cura, altrimenti “lo spirito malvagio” si sarebbe sentito ben accolto e avrebbe intaccato altri membri della famiglia.

La vita al centro seguiva un ritmo tranquillo. Io vivevo in questo microcosmo e mi lasciavo trasportare dalla regolarità delle attività giornaliere. Colazione alle 7:30, poi preparazione per la scuola, o la campagna, o i giochi o i disegni, o l’apertura delle arachidi, che servivano per preparare il granout soup, o la pelatura interminabile della cassava. Il pranzo era alle 12:30 e poi i ragazzi andavano a riposare fino alle 16:00 circa. A volte, nel pomeriggio, si faceva un po’ di sport, altre volte si cercava di fare semplici esercizi di fisioterapia e altre volte c’era il catechismo e il mercoledì e la domenica la messa. La sera alle 19:00 veniva servita la cena e dopo che i ragazzi avevano mangiato, raggiungevamo i preti nella loro comunità per cenare insieme. Il weekend o quando i ragazzi tornavano a casa per le vacanze, avevo la possibilità di raggiungere i miei amici ad Accra, o di fare un tuffo nel fiume ad Ada o più semplicemente di godermi la semplice vita del villaggio di Adidome. Oramai mi conoscevano tutti, seppur continuavano a chiamarmi “Yevù”. Non c’era molto da fare, se non andare presso qualche drinking spot a bere una Club ghiacciata o una coca cola e la sera comprare gli Indomie o la Tilapia, rigorosamente con Banku ed Okro, da alcune donne che lavoravano vicino l’area del mercato. Questo si svolgeva il martedì e il venerdì. Ma era durante il weekend che il villaggio si animava, grazie anche al tanto afflusso di gente che veniva da Accra o da ogni dove per partecipare ai funerali. Ebbene sì, i funerali, l’evento mondano per eccellenza, ai quali non si poteva non prendere parte.

Questi hanno un’importanza sociale maggiore persino rispetto ai matrimoni o ai compleanni, che invece non vengono quasi mai festeggiati. Spesso accade che la preparazione dignitosa di un funerale richieda mesi, se non anni. Magari perché non si posseggono i soldi al momento del decesso della persona cara, o poiché qualche parente prossimo non si trova in Ghana, o semplicemente perché si deve organizzare tutto nella maniera più sfarzosa possibile, soprattutto se il defunto è un anziano o un capo villaggio. Per quanto riguarda i bambini o i giovani, la celebrazione e la sepoltura avvengono quasi immediatamente. Anche i «festeggiamenti» sono ridotti al minimo, per non «invogliare la morte a ripetere la stessa cosa», cioè a prendersi qualcun altro della famiglia altrettanto giovane. Sui manifesti affissi in giro si leggono espressioni quali «WHAT A SHOCK» oppure «WHY SO SOON?» Ma quando si tratta di un adulto o un anziano (ne ho visti di ultracentenari), allora è una festa che può iniziare il venerdì e terminare la domenica. Il corpo del defunto, dal momento del decesso fino all’organizzazione del funerale, rimane in obitorio, altra spesa che la famiglia deve sostenere. A volte, chi se lo può permettere, inizia a farsi scolpire la bara con largo anticipo e la commissiona in base al lavoro che svolge o alle sue passioni. Al momento del decesso il corpo appartiene alla famiglia, a seconda che il defunto seguisse una tradizione matrilineare (come gli Ashanti o i Fanti) o patrilineare (come gli Ewe). E in alcuni casi è piuttosto complicato stabilire a CHI veramente appartenga poiché il coniuge e i figli passano in secondo piano. È la famiglia allargata che nomina un CAPO DEL LUTTO che magari è qualcuno con cui il defunto non aveva contatti. Seguono poi interminabili riunioni che sono presiedute da questa “famiglia”, in cui la parola del coniuge e dei figli può essere ignorata. Ci vogliono poi settimane per redigere un necrologio ed è un affare complicato ottenere l’elenco dei partecipanti al lutto nell’ordine giusto. La scelta del capo lutto (che dovrà essere necessariamente un uomo) è importante poiché questo non andrà ad occuparsi solo del funerale, ma deciderà anche chi sarà il successore. Possono anche nascere controversie su quando e dove seppellire il defunto. Controversie che possono finire in tribunale. Ma in generale, organizzare un funerale dignitoso richiede tempo. A volte si deve ristrutturare la casa in cui vivevano e morivano i defunti o, a volte, è necessario costruire una nuova casa per poter organizzare uno spettacolare funerale. La presenza di alcune personalità importanti dovrà essere negoziata trovando una data che vada bene per tutti. A volte vengono prodotte brochure funebri con più di 200 pagine di fotografie e omaggi che coprono l’intera vita del defunto e questo richiede tempo. I manifesti, disposti in punti strategici, possono costare da $ 600 a quasi $ 3.000. Ai ricevimenti ho visto persino distribuire bottiglie d’acqua in plastica con la foto del defunto usata come etichetta. Può suonare blasfemo o scandaloso, ma il funerale rappresenta un omaggio, in pompa magna, all’amato defunto e viene curato in ogni dettaglio. Un funerale medio può arrivare a costare tra $ 15.000 e $ 20.000. Esiste un codice di abbigliamento a cui i partecipanti devono attenersi: è tradizione che i membri della comunità indossino abiti formali in bianco e nero, poiché questi colori simboleggiano il ringraziamento a Dio e la fine del periodo di lutto iniziale. In alcune culture ghanesi, tra cui gli Ashanti, i parenti stretti del defunto indossano abiti rossi e neri. I capi tribù, poi, indossano abiti tradizionali e siedono sotto elaborati baldacchini (canopy) per osservare i festeggiamenti. I figli del defunto, a volte, indossano berretti a rete decorati con peperoni rossi e gusci d’uovo. Questi simboleggiano la serietà dell’occasione (peperoncino) e i sentimenti di dolore e di impotenza di chi li indossa (gusci d’uovo). Chi sei stato, lo si vede dal numero di partecipanti al funerale e dalle offerte che si riescono a raccogliere. Generalmente queste, servono alla famiglia per recuperare parte del denaro speso in cibo e bevande. Ma non è stato sempre così. Prima dell’avvento degli obitori, i defunti venivano seppelliti in 2­3 giorni e poi veniva fissata una data per il rito finale. Ora il periodo regolare in cui un cadavere viene conservato nell’obitorio prima di essere sepolto varia da tre a sei mesi. 10 mesi o un anno non fa scalpore. Quando si tenta di seppellire qualcuno “troppo presto”, si è certi, invece, di suscitare indignazione. Si viene accusati di sacrilegio e di mancare di rispetto all’amato defunto. I funerali a cui siamo abituati, sono un connubio di lacrime, tristezza e, generalmente, silenzio. In Ghana, è l’esatto opposto con tradizioni e usanze veramente tipiche e originali.

La prima usanza è rappresentata dalle originali bare, realizzate dalle mani di abili artigiani e che possono rappresentare qualunque cosa, ma che in generale, si ispirano al mestiere o ad una passione del defunto. Se questo era un calzolaio, ecco una bara a forma di scarpa; se aveva un bar, ecco una bara a forma di birra o coca-cola; se era un pescatore si possono trovare bare incredibilmente belle a forma di creature marine.

Paa Joe, (col nome di famiglia Joseph Ashong) è nato 1947 ed è oggi un artista acclamato e riconosciuto a livello internazionale per i suoi “fantasy coffins” o “abebuu adekai” (scatole, ricettacolo di proverbi). Joe si avvicina a questo mondo quando aveva solo 16 anni. Sua madre lo mandò a svolgere un apprendistato nella comunità Ga di pescatori di Teshie. I suoi zii, Ajetey e Kane Kwei erano dei brillanti creatori di bare fantasiose nella comunità, intorno al 1950, e Joe lavorò con Kane per 12 anni prima di ritornare ad Accra nel 1976 e iniziare la propria attività. Uno dei suoi zii, realizzò una bara a forma di aereo per la moglie, perché prima che morisse si erano promessi di visitare l’Egitto ma non ebbero il tempo di realizzare quel desiderio.

Le sue opere sono state esposte a livello internazionale: nel 1989 al Centre Pompidou di Parigi, nel 2011 a Londra al V&A Museum, nel 2012 a New York nel Museo di Brooklyn e poi nella stessa Accra in una mostra curata da Gallery1957. Da anni la sua fama lo precede in tutto il mondo: il catalogo aggiornato delle sue bare è arrivato nelle mani di Barack Obama, Vladimir Putin, Mariano Rajoy, ma anche Madonna, Lenny Kravitz e Boris Becker. Nel 1988 l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter acquistò due sue bare. Lo stesso fece Bill Clinton che ne ordinò una per lui e una per la moglie Hillary. «Queste bare ricordano alle persone che la vita ha un corso anche dopo la morte» ha dichiarato Jacob. «Ricordano che i morti avranno una vita nell’aldilà ed è importante che ci vadano con stile». Il costo per una di queste creazioni varia dai dieci ai quindici mila dollari e può aumentare o diminuire in base alla qualità del legno richiesta (tradizionalmente si usa il Wawa tree). Per ogni storia Paa Joe realizza la bara perfetta. A forma di leone, scarpe di ballerina, chitarra, aereo, automobile d’epoca e taxi. Ma anche scarpe da ginnastica, donne nude, lattine di coca-cola, peperoni e astronavi. Paa Joe usa spesso un antico proverbio Ga, per spiegare l’importanza del suo lavoro: “Ake ya heko” (non lo si porta da nessuna parte), riferito alla ricchezza e al potere. Il dove, è quel luogo a cui tutti siamo destinati, quell’altrove che ci attende dopo la morte. Poiché però, per molte popolazioni dell’Africa occidentale, la vita continua dopo la morte, il passaggio va celebrato con feste, cibo, danze… Gli antenati defunti sono, inoltre, molto più potenti dei vivi e possono influenzare le vite dei loro parenti. Le famiglie fanno dunque il possibile per rendere al più presto il defunto ben disposto nei loro confronti. Sulla storia di Paa Joe è stato girato il documentario Paa Joe & The Lio, firmato nel 2016 dal regista britannico Benjamin Wigley.

La seconda usanza è più recente e ha preso piede solo da qualche tempo: la famosa CoffinDance ghanese (danza dei becchini ai funerali), spopolata in internet grazie ai meme #GhanaSaysGoodbye. Il meme, prevede che la danza dei portatori di bara ghanesi sia accompagnata dall’irresistibile traccia EDM del 2010 di Tony Igy, “Astronomia “. La prima scena del meme è sempre diversa e fantasiosa e può essere più o meno originale in base alle sfide o ai giochi o alle situazioni che i protagonisti propongono. Il finale del meme è poi sempre il medesimo, ovvero la “coffin dance”. Questa è stata poi largamente utilizzata durante l’epidemia di coronavirus per incoraggiare le persone a rispettare il distanziamento sociale, risollevando l’umore. Tipico esempio, vediamo nella prima parte del meme una signora che si alza la mascherina per annusare la frutta e la verdura al supermercato. Segue uno stacco ed infine esplode la “coffin dance”.

Protagonista indiscusso è, in questo caso, Benjamin Aidoo, 32 anni, fondatore di “Nana Otafrija Pallbearing”. È un piccolo imprenditore (già portatore di bare dal 2003 per pagarsi la scuola superiore) che ha iniziato ad utilizzare i social ed è diventato portatore­ballerino numero uno al mondo. È animato da una missione comprensibile in Ghana: rendere i funerali la celebrazione della vita del defunto. Ballare durante l’ultimo addio può, infatti, essere un buon modo per celebrare i morti e anche per «distrarre» i parenti del defunto, che a volte soffrono così tanto, da arrivare a svenire. Invece, secondo Aidoo, non è il caso di piangere quando qualcuno se ne va per sempre. Se muoiono i genitori, ad esempio, «sai cosa hanno fatto tua madre e tuo padre per te. Conoscendo la vita che hanno vissuto, dovresti festeggiarli». I becchini ghanesi, non si fanno problemi a scomporsi: ballano tirati a lucido – in giacca nera, occhiali da sole e scarpe di vernice – si mettono a quattro gambe, si sdraiano sulla schiena e muovono le gambe a tempo di musica, tenendo in perfetto equilibrio la bara. Aidoo, partito con un gruppo di sei persone, oggi ha un centinaio di dipendenti: 95 uomini e cinque donne. Due delle donne, come lui, marciano davanti alla bara con un bastone decorato con la bandiera del Ghana e con un cappello a cilindro. Aidoo ha anche assunto un manager con cui sta cercando di lanciare un marchio globale: una volta superata la pandemia, vorrebbe insegnare l’arte del funerale allegro a tutto il resto del mondo. Era il 2017 quando la BBC ha parlato della «danza del feretro» dei pallbearers per la prima volta. Nel video originale, ovviamente, i necrofori non ballano al ritmo di musica house, ma si muovono seguendo danze e balli tradizionali. Ma è stato il coronavirus a consolidare la loro fama. Su Twitter Aidoo ha pubblicato un video ringraziando i medici di tutto il mondo: «Ricorda», ha aggiunto, «resta a casa o balla con noi». C’è anche chi ha cominciato a imitarli: alla fine di maggio 2020, un video remix di Coffin Dance è stato condiviso dal presidente americano Donald Trump sulla sua pagina Facebook ufficiale, che ha deriso una dichiarazione controversa fatta dal rivale democratico Joe Biden. In Perù, la polizia in tenuta antisommossa si è messa a ballare, sorreggendo una finta bara, per ricordare ai cittadini l’importanza di restare in casa e di rispettare il distanziamento. Lo hanno fatto anche i poliziotti in India e in Colombia. E a Beirut un gruppo di uomini vestiti da pallbearers ha sfilato per le strade con un feretro finto, decorato con la lira libanese (che si sta deprezzando rapidamente), per protestare contro il crollo economico. Ma anche se il coronavirus ha fatto sì che tutto il mondo parlasse dei pallbearers, almeno al momento, come spiega Aidoo, ha limitato i loro affari in Ghana: i funerali, per ora, sono limitati a 25 persone, portatori di bare inclusi, e non si può cantare né ballare. Ma c’è chi, pur di non rinunciare a celebrare il proprio morto adeguatamente, ha deciso di conservarne il corpo in obitorio fino alla revoca delle restrizioni. Quando si potrà tenere una gloriosa sepoltura, con tanto di ballerini speciali. Durante un’intervista a “Footmercato”, Aidoo ha raccontato quale sarebbe il suo sogno: “Auguro a tutti una lunga vita, sia chiaro, ma se ci fosse l’occasione, il mio sogno è quello di accompagnare nel suo ultimo viaggio Ronaldinho. Sarebbe un tributo da un ballerino come me ad un ballerino del campo di calcio. Poi, dopo di lui, Maradona e Messi”. Inoltre, lo stesso Benjamin, ha affermato che lo renderebbe felice vedere giocatori del calibro di Messi, dopo un gol, esultare con la “Coffin Dance”.

 

Sono una calabash piena ora. Piena di altre conoscenze, di altre immagini e colori, di altri odori e sapori che mi solleticano l’olfatto e mi stuzzicano l’appetito ogni qual volta io chiuda gli occhi. Sono un ponte tra due mondi, uno che conosco bene e un altro che non mi stancherò mai di conoscere più a fondo. Di ognuno ne apprezzo la bellezza e l’unicità, soffermandomi sui dettagli positivi, quelli che possono apportare dei miglioramenti in me. Perché considero il viaggiare la ricchezza più grande a cui aspirare.

Elisa Parata

 

 

 

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