Sono trascorsi 29 anni da quando suo padre, neurochirurgo messinese, primario agli “Ospedali Riuniti” di Reggio Calabria e consulente del nosocomio di Locri, è stato strappato alla vita, sua e dei suoi cari, eppure Marco Pandolfo si strazia le mani mentre ripercorre quegli attimi. A soli 18 anni viene chiamato a riconoscere il corpo del padre Domenico Nicolò – Nicola per la famiglia – ferito a morte da sette colpi di pistola perché giudicato colpevole di aver provocato la morte, o meglio, di non essere riuscito a salvare la vita, della figlia di un potente boss della locride: con le sue parole Pandolfo rievoca il senso di disperazione, di smarrimento, di sgomento provocati da quella brutale esecuzione. Lo fa tra gli sguardi attenti dei ragazzi che prendono parte al progetto Amunì, inaugurato nel marzo del 2018 dall’associazione Anymore, percorso di cittadinanza attiva che coinvolge i giovani del circuito penale minorile, che prenderanno parte, il 21 marzo, agli eventi organizzati in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
Ed è proprio grazie all’intervento di Antonio che viene individuato il tema fondamentale, la vera protagonista della storia raccontata da Marco Pandolfo: la scelta.
La scelta di agire nonostante la consapevolezza del rischio a cui ci espongono le nostre azioni: le possibilità di riuscita dell’intervento della bambina erano minime, eppure, a differenza di tanti altri suoi colleghi, Nicola Pandolfo ha scelto di esercitare con coerenza e professionalità il proprio mestiere, a costo della sua stessa vita. La scelta di uniformarsi ad un sistema omertoso, rendendosi sordi e ciechi di fronte all’esecuzione di un uomo alle 11 di mattina di un giorno lavorativo a Locri: nessuna delle decine di persone presenti ha saputo descrivere l’aspetto del killer. La scelta, infine, di trasformare un dolore atroce in una opportunità, in una bussola che non lo abbandona mai, tale da portare Marco, dopo un lungo e doloroso percorso di elaborazione del lutto, ad esprimere quello che suona come un assurdo paradosso, a dirsi felice della morte del padre, perché simbolo della scelta di un uomo che non è voluto fuggire, che non ha voluto voltarsi dall’altra parte.
E tuttavia questa riflessione non può non essere accompagnata dalla consapevolezza della difficoltà di fare una scelta controcorrente, dalla pressione esercitata da quanti ci circondano, dalla paura di condannare se stessi ed i propri cari alle durezze di una vita da “traditori”. Ed al timore, espresso da Antonella, che, alla fine, nonostante tutto, la giustizia non riesca a prevalere, che lo stato si renda a sua volta cieco, che diventi esso stesso collaboratore e complice della mafia, di cui è spesso stata negata la capillare diffusione sul territorio nazionale, la presenza ingombrante nelle comunità locali, la responsabilità palese in vicende simili a quella dell’uccisione di Nicola Pandolfo, mai riconosciuto ufficialmente come vittima della ‘ndrangheta.
Eppure, sebbene la mancanza di tale riconoscimento faccia rabbia e provochi amarezza, per Marco è nella indignazione di Antonella, nella nuova presa di coscienza di Antonio che suo padre continua e sempre continuerà a vivere.