Edoardo, Matteo dove avete svolto il Servizio Civile Universale e perché avete scelto questo progetto?
Matteo: Tornato dall’Erasmus in Spagna mi era rimasta la voglia di ripartire e rimettermi in gioco. Scopro il Servizio Civile grazie ad un’amica che lo stava svolgendo in Madagascar. Avendo sempre avuto il pallino dell’Africa, e visto che mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza di volontariato a lungo termine, decido di partecipare alle selezioni del Bando 2018/2019. Essendo laureato in Ingegneria Civile volevo fare un’esperienza che si coniugasse con il mio percorso di studi e cercando tra i vari progetti ho conosciuto MLFM che offriva due progetti di stampo ingegneristico, uno in Rwanda e uno in Tanzania. Sono stato molto indeciso su quale Paese orientarmi ma, dopo varie riflessioni, ho deciso di candidarmi per il progetto in Tanzania. Lì ho vissuto nel distretto di Mkuranga mentre il progetto si svolgeva a Kisiju Pwani, villaggio sul mare di 4.000 abitanti, e a Mavunja, frazione adiacente di 800 abitanti.
Edoardo: Io sono laureato in Ingegneria Civile-Ambientale al Politecnico di Torino. Purtroppo, durante l’Università non sono riuscito a fare l’Erasmus però, finiti gli studi, mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza formativa all’estero. Poi degli amici mi hanno parlato di Davide – colui che sarebbe poi diventato il nostro OLP (operatore locale di progetto, n.d.r.)- in quanto si occupava di un progetto idrico in Tanzania nell’ambito del Servizio Civile. Ho quindi deciso di contattarlo, ed essendo che il progetto mi è subito piaciuto, mi sono candidato al Bando SCU per il progetto di MLFM. Nonostante nel frattempo avessi firmato un contratto a tempo indeterminato, quando mi arrivò l’esito positivo della selezione decisi di voler assolutamente fare quell’esperienza, quindi lasciai il lavoro e partii per la Tanzania.
Quali difficoltà avete trovato durante la vostra esperienza in Tanzania?
Matteo: Da lombardo/milanese la difficoltà più grande che ho avuto è la diversa cognizione del tempo che hanno le persone in Tanzania rispetto a noi. Ad esempio capitava spesso che le persone fossero in ritardo e non avvisassero perché per loro è una cosa normale. Un’altra cosa è il fatto che tendono sempre a dire di poter/saper fare tutto quello che gli chiedi anche se effettivamente non è così. Non è culturalmente ben visto dire di no o dire di non saper/poter fare qualcosa.
Edoardo: Io non ero mai stato all’estero per lunghi periodi, quindi ho avuto dei momenti di crisi in cui volevo tornare a casa, ma come ho vissuto anche dei momenti in cui stavo benissimo. Questa credo però che sia una cosa normale, soprattutto perché vivevamo per la maggior parte del tempo in villaggio e la quotidianità li è molto diversa da quella a cui ero abituato. Dal punto di vista lavorativo è stato difficile collimare la vita di tutti i giorni con il lavoro in quanto il nostro ufficio era nella stessa casa in cui vivevamo insiema al nostro OLP, quindi a volte risultava difficile distrarsi. Concordo con quanto detto da Matteo ma aggiungo anche che sono difficoltà intrinseche all’esperienza, se decidi di andare in un contesto dove la cultura è completamente diversa dalla tua sei tu che ti devi adattare, è difficile che avvenga il contrario. Quindi direi che le difficoltà dovute alle differenze culturali vanno superate lavorando su sé stessi e sulle proprie capacità di adattamento.
In cosa consisteva il progetto in cui eravate impiegati?
Edoardo: L’obiettivo del progetto era la costruzione di un acquedotto per i villaggi rurali di Kisiju e Mavunja. Nella zona esisteva già un pozzo ma l’acqua rimaneva stoccata lì, il nostro compito era quello di depurarla e curare la rete di distribuzione della stessa tramite la costruzione di fontane. Oltre a questi lavori tecnici ci occupavamo anche poi di tutta la parte d’ufficio come la contabilità, la burocrazia e la scrittura di report, etc.
Matteo: Il pro e il contro di far parte di una piccola ONG (in Ufficio eravamo in tre) è il fatto che ti permette di fare una full immersion nel progetto e quindi di occuparti un pò di tutto: dalla contabilità, ai report per i donors, alle riunioni in Distretto ma anche tutta la parte tecnica costruttiva di cantiere: gli scavi, i tubi, i fornitori, etc.
Edoardo: è stato tutto molto utile, ho imparato di più in dieci mesi di Servizio Civile che nel lavoro che sto facendo adesso. Li abbiamo fatto tutto noi, è stata un’esperienza validissima.
Dalla vostra esperienza direste che la Tanzania è un Paese pericoloso?
Matteo: Allora, io non ero mai stato in Africa sub-sahariana e durante la formazione ci hanno detto di stare molto attenti con gli sconosciuti e di evitare di uscire la sera. Arrivato in Tanzania ho rispettato ligiamente tutto quello che mi era stato detto di fare/non fare, poi ovviamente dopo qualche mese che vivi li tendi ad abbassare la soglia di attenzione. Io l’ho fatto e mi è successo un episodio spiacevole di microcriminalità -che sarebbe potuto accadere in qualsiasi altra parte del mondo- ma questo episodio non mi ha fatto ricredere sugli altri 11 mesi passati lì in cui non mi sono mai sentito in pericolo, quindi non definirei la Tanzania come un Paese pericoloso. Ovviamente se abbassi troppo le difese puoi essere “punito”, come però mi è successo anche in Spagna e come potrebbe benissimo succedere a Milano.
Edoardo: io sono una persona che tendenzialmente sta molto attenta in quanto ho sempre il timore di perdere qualcosa o che mi rubino qualcosa, quindi stavo sempre allerta e difficilmente mi muovevo la sera da solo. Però un giorno abbiamo pranzato in un villaggio e, mentre stavamo mettendo in moto la macchina per andarcene, un signore ci bussa al finestrino e ci porge un oggetto rosso: era il mio telefono, che mi era caduto dalla tasca uscendo dal locale. Il valore di quel telefono corrispondeva allo stipendio di qualche anno di lavoro in base ai salari locali, eppure quel signore invece di approfittare della mia distrazione me lo ha restituito. In generale non ho mai avuto problemi e non mi sono mai sentito in pericolo. Si, ho sentito -come nel caso di Matteo- di qualche scippo, ma sono episodi di microcriminalità che possono avvenire in qualsiasi grande città del mondo (gli episodi di microcriminalità avvengono solitamente a Dar es Salaam, città con più di 4 milioni di abitanti caratterizzata da un grande divario socio-economico tra gli abitanti, n.d.r.).
Quale consiglio dareste a un giovane come voi che si appresta a iniziare il Servizio Civile all’estero?
Matteo: Sicuramente gli direi che un anno vola quindi di approfittare di tutte le occasioni che si hanno, di godersi tutto al massimo e di non rimandare mai le cose. Lasciati andare, cerca di farti coinvolgere dal contesto il prima possibile.
Edoardo: Io mi sono “sbloccato” meno velocemente di Matteo, quindi consiglio di non focalizzarsi troppo sulle cose negative che ti possono succedere – perché possono succedere- e soprattutto è molto importante mantenere un rapporto con chi ti sta in casa, cercare di avere un buon rapporto con chi ti può aiutare nei momenti di difficoltà.
Matteo: sì, perché è una situazione un pò totalizzante: tu vivi, lavori e -tendenzialmente- esci con i tuoi colleghi di Servizio Civile. è un contesto totalizzante, non è che per forza devi diventare amico dei tuoi colleghi, nel nostro caso ci siamo trovati bene ed è nata un’amicizia, ma comunque devi riuscire a starci bene altrimenti diventa una situazione invivibile che rischia di rovinare tutta l’esperienza.
Qual è stato il primo impatto con la Tanzania?
Edoardo: Il primo impatto per me è stato sconvolgente. Quando sono arrivato non sapevo cosa aspettarmi e mi sono trovato a dormire in un letto, che poi per me è diventato il più comodo dell’universo, ma che all’inizio mi sembrava scomodissimo, non ci stavo, poi la zanzariera, il caldo atroce. Poi, il primo pasto che ho fatto è stato a base di banane fritte, e ho pensato:”Ma dove diamine sono finito?”. Come ti puoi immaginare vai a finire in un mondo completamente diverso, vedi accadere cose che non faresti mai, cibi che non mangeresti mai ma che poi alla fine ti ritrovi a mangiare e diventeranno buonissimi. Direi che è stato scioccante.
Matteo: Sicuramente del primo impatto mi ricordo il caldo, che era preventivabile, ma che non riuscivo a sopportare. Le prime tre settimane sono rimasto in città, a Dar es Salaam, per fare il corso di swahili poi mi sono spostato nel villaggio. La cosa che mi ha colpito di più è stata il caos della città, affollata e chiassosa con gente ovunque: per strada, sugli autobus, ai mercati.
In un ipotetico Paese ideale, cosa portereste dalla Tanzania e cosa dall’Italia?
Matteo: Dall’Italia porterei l’organizzazione e dei tagli di moneta più grossi, la banconota che vale di più in Tanzania corrisponde a circa 4 euro.
Dalla Tanzania porterei la capacità di essere felice, solare e spensierato con nulla. Nulla di quello che intendiamo noi per lo meno, nel senso di avere qualcosa che possa essere un telefono, un videogioco o una banale palla. Hanno un concetto di felicità completamente opposto a quello che – purtroppo – abbiamo in occidente dove il semplice fatto di possedere qualcosa sembra appagante, ma la felicità che deriva dall’acquisto dura poco. Invece, in Tanzania l’essere gioiosi, allegri e spensierati è proprio uno stile di vita.
Edoardo: Dalla Tanzania all’Italia porterei innanzitutto il Fruit Passion e il Mango. Apparte questa cosa materiale, mi collego a quanto detto da Matteo, ovvero dare meno peso alle cose che possediamo, essere meno superficiali ma, soprattutto, la consapevolezza che la diversità è importante. Ma anche il senso di unione che si crea con le persone che consci che tendono a diventare come una seconda famiglia.
Dall’Italia porterei le cose che in Tanzania non hanno, come ad esempio una buona sanità o tutti quei servizi che mancano tendenzialmente in Africa. Perché è dalla mancanza di servizi che nascono tutti i problemi di organizzazione: se tu non hai determinati standard europei non riesci neanche a concepire la puntualità, se sei abituato a vivere in un villaggio dove -per esempio- il medico non ha orari per le visite e sei abituato semplicemente a metterti in fila e aspettare, anche per ore, perchè dovresti avere fretta?
Invece, cosa cambiereste della Tanzania e cosa dell’Italia?
Edoardo: Della Tanzania cambierei la corruzione, che è la principale causa dei problemi del Paese e che fa fallire i progetti.
Dell’Italia cambierei la visione che la maggior parte della gente ha del terzo settore, che pensano che gli operatori vadano all’estero per farsi le vacanze quando invece hanno un sacco di lavoro da fare. Pensando per esempio alla riduzione dei fondi per il Servizio Civile, anche qui secondo me c’entra il pensiero della genta che crede che un civilista parta per una sorta di vacanza, e no! Io, grazie al Servizio Civile in Tanzania, ho imparato molto di più di quello che ho potuto imparare in Italia. Qui a volte sembra che non ci sia lavoro da fare, la c’era sempre da lavorare -a volte anche troppo- ma abbiamo avuto l’opportunità di metterci in gioco e imparare molto. Vorrei cambiare la visione che la gente ha di questo settore partendo proprio dall’istruzione, per esempio, trovo assurdo che in un corso universitario di ingegneria non ci sia un corso in cui si parli di sviluppo e cooperazione.
Matteo: Della Tanzania cambierei la tendenza della gente ad essere lasciva, nel senso di sperare che ci sia sempre qualcuno che ti porti la soluzione. Il limite tra chi effettivamente non ha i mezzi per fare le cose e chi invece aspetta che sia qualcun altro ad aiutarli è veramente labile. Se hanno un problema tendenzialmente lo accettano senza provare ad ingegnarsi per trovare una soluzione.
Dell’Italia cambierei la mentalità diffusa di credersi superiori agli altri.
Qual è stata per voi la cosa più strana della Tanzania?
Matteo: Una cosa che adesso non esiste più, ma che ci ha raccontato un nostro collaboratore parlando della sua infanzia, è il fatto che i bambini non hanno la concezione della loro età. Loro nascono, crescono, iniziano a parlare, a camminare, etc. ma non hanno un compleanno, tre quarti della popolazione è nata -all’anagrafe- il primo gennaio. Quindi, per capire quando è giunto il momento di andare a scuola passano la mano sopra la testa e, nel momento in cui riescono a toccarsi l’orecchio destro con la mano sinistra, allora sono pronti per iniziare la scuola.
Un’altra cosa che mi ha colpito molto, che accade tutt’ora, è il fatto che quando nasce un bambino non gli venga attribuito un nome fino al compimento dei sei mesi. Questo in quanto, una volta superati i sei mesi, le probabilità che il bambino possa sopravvivere sono maggiori, questa cosa mi ha abbastanza sconvolto.
Edoardo: Il peso diverso che danno alla morte, il modo diverso che hanno di viverla, forse perché -purtroppo- sono abituati a vivere spesso lutti, soprattutto per malattia. Hanno una sorta di atteggiamento “superficiale” e scherzoso anche nei confronti della morte e delle malattie, mentre noi siamo abituati a vivere in una sorta di “bolla protetta” e quindi diamo un peso totalmente diverso alle vicissitudini tragiche della vita.
Mi riuscireste a descrivere la Tanzania attraverso un’immagine, un odore e un suono?
Edoardo: I primi giorni in Tanzania abbiamo alloggiato presso un ostello dove ogni sera la dada (letteralmente “sorella” in swahili ma è anche un termine informale usato per chiamare le collaboratrici domestiche, n.d.r.) che preparava il pastone per il cane, e l’odore della carne di quel pastone non me lo scorderò mai! Era un odore fortissimo e molto sgradevole. Non me lo dimenticherò mai!
Come immagine ti direi tutto quello che riguarda l’amicizia, quindi mi vengono in mente le miriadi di foto che ho fatto con tutti gli amici che ho conosciuto. Come suono quello della bambina che viveva con noi e che piangeva continuamente.
Matteo: Come immagine sicuramente le strade di terra rossa circondate da palme. Come odore quello del cocco che abbiamo raccolto, mangiato e bevuto. Suono, il suono della città ovvero il suono del caos di gente che grida, del traffico, delle moschee, etc.
Un ricordo particolare che vi rimane di quest’anno?
Matteo: quando abbiamo testato il pozzo per la prima volta abbiamo inserito una pompa collegata ad un tubo e l’abbiamo attivata. Quando, mentre impugnavo il tubo, è iniziata a sgorgare tantissima acqua i bambini del villaggio hanno iniziato a farsi la doccia ballando e cantando. Erano felicissimi, è stato un momento bellissimo.
Edoardo: La prima volta che sono andato a lavorare sul campo, la sera abbiamo mangiato ospiti da dei preti in un villaggio isolata in cui alle 7 di sera era già tutto buio e non si sentiva più nessun rumore. Dopo cena sono uscito sul patio a fumarmi una sigaretta e mi ricordo questa sensazione di pace e di calma totale.
Dove vi vedete nel vostro futuro? In Italia o all’estero?
Edoardo: A me piacerebbe ripartire anche se forse non per vivere fisso in un posto, mi piacerebbe fare un’esperienza in Asia, Vietnam e Nepal in particolare. Oppure sempre in Africa ma più al Nord, come Marocco o Tunisia.
Matteo: A me piacerebbe andare in Sud America. Al momento sto bene a casa, ma non escludo di poter ripartire. Sono stato bene in Tanzania e ci tornerei subito, però al contempo vorrei provare a vedere posti nuovi, in particolare mi piacerebbe conoscere il Sud America.
Intervista a cura di Veronica Giordani